LA CONDANNA DI UN PREPOSTO PER NON AVER SOSPESO UN'ATTIVITA' PERICOLOSA

Si riporta di seguito la sintesi di un’interessante pronuncia relativa all’identificazione della figura del preposto. Si tratta della sentenza della Corte di Cassazione, quarta sezione penale, del 22 novembre 2023, n. 46855 (udienza del 17.10.2023), con la quale un preposto veniva condannato per l'infortunio mortale di un lavoratore avvenuto all’interno di un cantiere, a seguito di una caduta da circa dieci metri di altezza.

IN FATTO:

All’imputato, in particolare, era contestato di aver fatto proseguire i lavori nel cantiere, nell’assenza delle necessarie e prescritte condizioni di sicurezza fino alla verificazione del sinistro, nonostante, il giorno precedente, questi fosse stato informato verbalmente della necessità di sospendere i lavori, stante l'assenza di idonee misure di sicurezza contro la caduta dall'alto.

Quest’ultimo, condannato in primo grado e ribadita la sua colpevolezza anche in secondo grado, presentava ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello per manifesta illogicità della motivazione. In effetti, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata aveva erroneamente riconosciuto nello stesso la figura di preposto e capo cantiere. Questi sosteneva, in particolare, l’incompatibilità della figura di preposto con la sua istruzione (diploma di ragioniere e perito commerciale) e con le mansioni svolte all’epoca del fatto (vale a dire quelle di tecnico commerciale).

IN DIRITTO:

 Il ricorso veniva dichiarato dalla Corte di Cassazione manifestamente infondato e, conseguentemente, inammissibile.

Il ricorrente, in effetti, si era sostanzialmente limitato a ribadire le censure mosse nei precedenti gradi di giudizio, vale a dire, di non aver svolto le funzioni di preposto e di capocantiere in occasione della verificazione del decesso del lavoratore per cui, dunque, non avrebbe ricoperto alcuna posizione di garanzia idonea a legittimare il riconoscimento della sua responsabilità penale.
La Corte, dichiarata l’inammissibilità del ricorso, procedeva, poi, a statuire quanto segue con specifico riferimento all’identificazione concreta della figura del preposto:

 

«...È risultato, infatti, congruamente accertato come l’A.A., al momento dei fatti, ricoprisse la qualifica, espressamente assegnatagli dal P.O.S., di preposto, come, altresì, confermato da vari testi escussi. L’imputato, in particolare: aveva il possesso di tutti i documenti relativi ai lavori; aveva ammesso di essere stato nominato responsabile del cantiere; disponeva di un’adeguata competenza tecnica, per aver ricevuto una formazione specifica da parte della società di cui era dipendente; era inquadrato nell’organigramma aziendale all’interno di un ufficio tecnico; era il referente diretto degli operai, al quale – per quanto da essi espressamente dichiarato – riferivano il lavoro svolto e prendevano direttive su quello da espletarsi; aveva fornito ai lavoratori la documentazione relativa al cantiere ed al piano di lavoro; era costantemente aggiornato sullo stato di avanzamento dei lavori, anche direttamente relazionandosi con il committente.

3.1. La censura dedotta, quindi, inerisce ad aspetti non passibili di valutazione in questa sede di legittimità, essendo ben noto che, in tema di sindacato del vizio di motivazione, il compito della Corte di cassazione non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (così, tra le tante, Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv, 203428-01)...».

***

Veniva, dunque, ampliamente accertato, nei due precedenti gradi di giudizio, che l’imputato, al momento dei fatti, ricoprisse la qualifica, espressamente assegnatagli dal POS, di preposto, come, altresì, confermato da vari testi escussi durante il processo. Tale circostanza veniva dai giudici in particolare fatta discendere dai seguenti elementi: il possesso di tutti i documenti relativi ai lavori; avere ammesso di essere stato nominato responsabile del cantiere; disporre di un'adeguata competenza tecnica; essere il referente diretto degli operai, al quale questi riferivano il lavoro svolto e prendevano direttive sul da farsi; avere fornito ai lavoratori la documentazione relativa al cantiere ed al piano di lavoro ed essere costantemente aggiornato sullo stato di avanzamento dei lavori.


Datore di lavoro e disponibilità giuridica dei luoghi

Questo mese si propone un'analisi della sentenza del 9 agosto 2022, n. 30809, con la quale la sezione IV della Corte di Cassazione penale ha sostenuto che il Committente, in applicazione dell’art. 26 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i., deve essere un vero e proprio Datore di Lavoro e non un soggetto privato, in quanto la disciplina di cui al medesimo articolo ha come ambito di applicazione una azienda e il suo ciclo produttivo, sempre che il Datore di Lavoro abbia la disponibilità giuridica dei luoghi ove si svolge l'appalto. 

***

La Suprema Corte ha evidenziato che la ratio della norma (nella versione originaria dell’articolo) è stata quella di tutelare i lavoratori appartenenti ad imprese diverse che si trovino ad interferire le une con le altre per lo svolgimento di determinate attività lavorative nel medesimo luogo di lavoro. Per questo motivo, il Datore di Lavoro "Committente" è tenuto ad apprestare all'interno della propria azienda quanto necessario al fine di prevenire ed evitare i rischi aggiuntivi, detti interferenziali, attivando e promuovendo percorsi condivisi di informazione e cooperazione, soluzioni comuni di problematiche complesse, rese tali dalla sostanziale estraneità dei dipendenti delle imprese appaltatrici all'ambiente di lavoro, dove prestano la propria attività lavorativa. Successivamente, ha precisato la Suprema Corte, che con l’art. 16 del D. Lgs. n. 106/2009 al primo comma dell'art 26 del D.Lgs 81/08 "Obblighi connessi ai contratti d'appalto o d'opera o di somministrazione", è stata inserita la condizione che il Committente-Datore di Lavoro abbia anche la disponibilità giuridica dei luoghi, nei quali si svolge l’appalto o la prestazione di lavoratore autonomo. 

Il fatto di cui alla sentenza in esame ha riguardato l’infortunio mortale accaduto a un dipendente di una ditta appaltatrice caduto dall’alto durante alcuni lavori di rifacimento della copertura di un capannone di proprietà del Committente, ma utilizzato da una impresa affittuaria. Condannato nei due primi gradi di giudizio, il Committente ha proposto ricorso per cassazione e la Corte Suprema, nel prendere le sue decisioni, si è espressa sulla corretta interpretazione del perimetro di applicabilità dell’articolo suddetto e, ritenendo incongruo nel caso in esame il richiamo allo stesso, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio degli atti alla Corte di Appello di provenienza per un nuovo esame. 

Di seguito, i motivi di ricorso accolti:

  1. a) il Committente non aveva la "disponibilità giuridica" dei luoghi in cui "si svolgeva l'appalto";
  2. b) non vi erano rischi interferenziali, non essendo coinvolte altre imprese, oltre la ditta appaltatrice.

Infortunio mortale del lavoratore sul ponteggio (Sentenza Cass.pen. n. 570 del 11.01.2023)

Il corrente mese si prende in esame la sentenza n.570 della Cassazione Penale, Sez. 4, 11 gennaio 2023 (ud. 4 ottobre 2022) in materia di infortunio mortale del lavoratore avvenuto su un ponteggio in fase di smontaggio (lavori in quota).

Nel caso di specie, l’amministratore unico di una società era stato chiamato a rispondere del reato di cui agli artt. 41, 589, commi 1 e 2, c.p., in relazione alle norme per la sicurezza dei lavoratori, per la morte di un dipendente che, mentre si trovava su un ponteggio di una galleria, in fase di smontaggio, veniva colpito da un'asse di contenimento della gettata di cemento con la quale veniva realizzata la veletta e perdeva l'equilibrio.

Essendo il ponteggio privo di dispositivi di sicurezza (sponde laterali) per la prevenzione del rischio di cadute dall'alto, precipitava dallo stesso da un'altezza di circa 10 metri, riportando le descritte gravissime lesioni che ne determinavano la morte dopo circa un'ora, riscontrata sul posto dei sanitari intervenuti.

La società era stata ritenuta dai Giudici di merito responsabile dell'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, per aver tratto vantaggio dalla condotta del reato attribuito all'amministratore unico.

Il vantaggio era stato ritenuto derivante, in particolare, dalla mancata messa a disposizione ai lavoratori di idonei mezzi di protezione individuale (con specifico riferimento ai sistemi di protezione contro le cadute dall'alto), dall'omessa formazione specifica ai lavoratori medesimi in materia di montaggio/ smontaggio dei ponteggi e dall'assenza di un preposto a tali lavori effettivamente nominato e quindi retribuito dalla società (condotte da cui derivava l'infortunio mortale)

Nella vicenda in esame, secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito non avevano però adeguatamente motivato sulla concreta configurabilità di una “colpa di organizzazione dell'ente”, né avevano stabilito se tale elemento avesse avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto.

Secondo i giudici di legittimità, tale aspetto invece, avrebbe meritato uno specifico approfondimento, anche e soprattutto con riferimento al concreto assetto organizzativo adottato dall'impresa in tema di prevenzione dei reati della specie di quello di cui ci si occupa, in maniera tale da evidenziare la sussistenza di eventuali deficit di cautela propri di tale assetto, causalmente collegati con il reato presupposto.

La Corte di Cassazione rilevava, infatti, che, già dalla descrizione del capo d'accusa, non emergeva con chiarezza il concreto profilo di responsabilità addebitato alla società, ai sensi della disciplina del decreto n. 231, avuto riguardo a quei "modelli di organizzazione e di gestione" richiamati dagli art. 6 e 7, comma 2, d.lgs. 231/2001, la cui efficace adozione consente all'ente di non rispondere dell'illecito, ma la cui mancanza, di per sé, non può implicare un automatico addebito di responsabilità.

Di conseguenza, i giudici di legittimità, con la sentenza in commento, hanno ribadito che la tipicità dell’illecito amministrativo ex D.lgs. 231/2001, imputabile all’ente, costituisce un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) di commettere il reato.

In tale prospettiva, l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, fondato sull’inottemperanza, da parte dell’ente, dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità dell’impresa.

 

Pertanto, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa, presupposto dell’illecito amministrativo, rilevano solamente se è riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 231/01.

La ricorrenza di tali carenze organizzative giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui).

Ciò rafforza l’esigenza che la c.d. “colpa di organizzazione” sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell’ente) responsabile del reato.

In conclusione, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione, ha affermato che giudici di merito non hanno dimostrato la “colpa di organizzazione dell'ente” ed è tornata a ribadire la necessità di non confondere la “colpa” dell’ente con la “colpevolezza” della persona fisica responsabile del reato.


Manutenzione di un macchinario pericolosa

Cassazione Penale, Sez. IV, 14/09/2022, n. 39480

Infortunio sul lavoro: la Datrice di Lavoro era in grado di conoscere la prassi deviante “pericolosa”, rispetto alla corretta procedura di manutenzione di un macchinario?

 

Profilo di colpa contestato al legale rappresentante della società: aver consentito (e comunque non impedito) un’attività di manutenzione di un macchinario pericolosa, così determinando le lesioni colpose aggravate a un dipendente.

La Corte ha accolto il ricorso dell’imputata, ritenendo che la legale rappresentante non sapesse - o potesse essere informata - della prassi “deviante” di manutenzione del macchinario in uso nello stabilimento aziendale.

Esito: Annullamento senza rinvio.

 

Questo mese si prende in esame la recente pronuncia della Sezione Quarta della Suprema Corte di Cassazione, del 14.9.2022, n. 39480, con la quale è stata annullata la pronuncia della Corte di appello di Firenze di conferma della penale responsabilità della legale rappresentante, per il reato di cui all'art. 590 c.p., commi 2 e 3 (lesioni colpose aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), in danno di un dipendente della società.

Il procedimento ha riguardato un infortunio sul lavoro,verificatosi nel gennaio 2014.

Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito(Tribunale di Lucca e Corte d’Appello di Firenze), il giorno dell'infortunio il lavoratore C.C.M. lavorava a una macchina e terminata una lavorazione e doveva iniziarne un'altra con un impasto diverso.

A tal fine, seguendo istruzioni che una collega più anziana gli aveva impartito quando era stato assunto, si apprestò ad eseguire una "pulizia leggera" della macchina rimuovendo i residui di pasta. Per farlo, si collocò in una posizione che gli consentiva di raggiungere con la mano destra i rulli e con la mano sinistra i comandi. Da questa posizione egli faceva girare i rulli a vuoto e, con la mano destra, accompagnava la pasta residua per farla scendere. Durante questa operazione uno dei rulli afferrò un dito del guanto monouso (utilizzato per evitare "contaminazioni"), la mano fu quindi trascinata dai rulli e ed il dipendente riportò la frattura di tutte le dita della mano destra. Da tali lesioni conseguì una malattia di durata superiore ai 40 giorni.

I giudici di merito hanno ritenuto che la responsabilità dell'infortunio possa essere attribuita alla legale rappresentante e datrice di lavoro dell'infortunato, perché ella consentì (o comunque non impedì) lo svolgimento della pericolosa operazione sopra indicata.

Le sentenze di merito sottolineano, in particolare, che, secondo l'infortunato, un'operazione simile a quella che determinò l'infortunio veniva eseguita ogni volta che, terminata una lavorazione, se ne doveva iniziare un'altra cambiando l'impasto e, da quando era stato assunto, lui aveva eseguito quella operazione forse trenta volte.

Indicazioni in tal senso, gli erano state fornite, quando aveva iniziato a lavorare, da una collega più anziana, la quale ha confermato tale circostanza, sostenendo di avere ricevuto a sua volta indicazioni analoghe da un soggetto (definito dalla teste quale "capo impastatore, responsabile dell'area impasti") e ha chiarito che tale operazione veniva compiuta quando si doveva cambiare l'impasto, mentre in altri casi, che richiedevano una pulizia più approfondita, si smontavano i rulli.

La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso dell’imputata, ritenendo che i Giudici di merito non avessero motivato sulla conoscibilità da parte della legale rappresentante della prassi aziendale non conforme.

Dalla sentenza di merito, infatti, la Suprema Corte ha ritenuto che non emergesse se la legale rappresentante  sapesse - o potesse essere informata della prassi in forza della quale, ad ogni cambio di impasto, in contrasto con le disposizioni contenute nel manuale di uso e manutenzione della macchina, si procedeva ad una "pulizia leggera" senza disalimentare la macchina, usando le mani invece degli appositi strumenti presenti in ditta.

È poi molto importante la censura della Suprema Corte relativa al fatto che i giudici di merito non avessero considerato:

- l’organigramma aziendale;

- la complessità aziendale (numero dei siti produttivi);

-la posizione di garanzia di un preposto, definito “responsabile dell’area impasti”.

Tutto ciò, doveva essere ben valutato per accertare la responsabilità del Datore di Lavoro, in ordine alla componente soggettiva della colpa.

Pertanto, ritenuto in parte fondato il ricorso, la Suprema Corte ha annullato la sentenza senza rinvio ai fini penali, essendo maturata la prescrizione del reato.


Irrilevanza della formazione “esterna” del lavoratore

Cassazione Penale, sezione IV del 20.5.2021, n. 30231.

Infortunio sul lavoro e formazione del lavoratore: irrilevanza della formazione “esterna” del lavoratore, se non è stato correttamente e specificamente formato dalla società.

Profilo di colpa specifico: violazione art. 37 D.lgs 81/08, omessa formazione.

Ricorso per Cassazione avverso la sentenza di condanna a mesi due di reclusione per l’amministratore della società I.G. s.n.c., in relazione ai delitti p. e p. dagli artt. 40 cpv e 590 c.p. e avverso la sanzione inflitta all'ente " I.G. s.n.c.", ex art. 25 septies D.lgs 231/01, determinata nella misura di Euro 18.000,00, per aver cagionato a un lavoratore, intento a tagliare un pannello di polistirene estruso con l'uso di una sega circolare, una "lesione complessa pollice e indice della mano sinistra" che comportava una malattia superiore a quaranta giorni.

Massima: il personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di pregresse esperienze lavorative o per il trasferimento di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, non può avere un valore surrogatorio delle attività di informazione e di formazione legislativamente previste.

Ne consegue che la prova dell'assolvimento degli obblighi di informazione e di formazione del lavoratore non può ritenersi raggiunta attraverso la considerazione della circostanza che l'infortunato sapesse come fare funzionare una sega elettrica, avendo adoperato in passato una macchina affettatrice.

La carenza, invero, non può essere colmata dalle conoscenze personali e l'imperizia del lavoratore, come pure l'imprudenza o la negligenza, non sono suscettibili d'interrompere il nesso causale tra condotta addebitata al datore di lavoro ed evento.

Esito: dichiarazione inammissibilità dei ricorsi.

Questo mese si prende in esame la recente pronuncia della Sezione Quarta della Suprema Corte di Cassazione, del 20.05.2021, n. 30231, in cui l’amministratore della società X e al contempo la società da questi amministrata sono stati ritenuti responsabili per avere cagionato lesioni personali ad un dipendente, con violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

In particolare, il lavoratore intento a tagliare un pannello di polistirene estruso, con l'uso di una sega circolare, sprovvista di spingitoi, entrava in contatto con la lama, riportando una "lesione complessa pollice e indice della mano sinistra" che comportava una malattia superiore a quaranta giorni.

Nei precedenti gradi di merito il profilo di colpa specifica da addebitarsi all'imputato e all’Ente, si era individuato nella mancata o insufficiente formazione del lavoratore, ossia nella violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 37.

Sul punto la Corte territoriale affermava che "il dipendente, pur lavorando già da tre mesi, non aveva un bagaglio esperienziale specifico formato nell'arco di anni di osservazione ed apprendimento"; "la breve durata dello stage non può avere consentito al lavoratore di assorbire con la dovuta coscienza e profondità le nozioni di sicurezza minime in un settore, quale quello edile, in cui il rischio di infortunio è permanente, per l'utilizzo di potenti macchinari o l'esposizione a lavorazioni potenzialmente pericolose".

Quanto alla responsabilità dell’ente si chiariva che l’inadeguata preparazione professionale del dipendente avrebbe comportato un risparmio per il soggetto giuridico, il quale non aveva dovuto sostenere costi aggiuntivi per i corsi e per le giornate di lavoro perse.

Nei motivi di ricorso per Cassazione dell’Amministratore della società avverso tale decisione si tentava di sostenere che il lavoratore era, in realtà, in possesso di adeguata formazione, in ragione delle precedenti esperienze lavorative e per il bagaglio professionale che egli portava con sé nella nuova azienda (il lavoratore aveva frequentato un corso di formazione sulla "sicurezza e salute sul lavoro in edilizia" presso il Comitato Paritetico Edile per la formazione e la sicurezza della Provincia di Bolzano, un corso specifico, rivolto a tutti i lavoratori del comparto dell'edilizia, nell'ambito del quale l'impiego della sega circolare era stata oggetto di attività formativa”).

Secondo l’assunto difensivo, quindi, il lavoratore aveva svolto un corso teorico ed aveva anche ricevuto un addestramento pratico in cantiere, avendo già utilizzato la sega circolare prima dell'incidente.

La Corte nel dichiarare i ricorsi in favore dell'imputato e dell'ente inammissibili chiariva che:

 “in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l'attività di formazione del lavoratore non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di pregresse esperienze lavorative o per il trasferimento di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori. Questo tipo di apprendimento non può avere un valore surrogatorio delle attività di informazione e di formazione legislativamente previste”.

“Ne consegue che la prova dell'assolvimento degli obblighi di informazione e di formazione del lavoratore non può ritenersi raggiunta attraverso la considerazione della circostanza che l'infortunato sapesse come fare funzionare una sega elettrica, avendo adoperato in passato una macchina affettatrice. La carenza, invero, non può essere colmata dalle conoscenze personali e l'imperizia del lavoratore, come pure l'imprudenza o la negligenza, non sono suscettibili d'interrompere il nesso causale tra condotta addebitata al datore di lavoro ed evento”.

Tutto ciò osservato, la Suprema Corte dichiarava inammissibili i ricorsi.

 


Assenza di formazione del preposto non ne esclude la responsabilità - Cass. Pen., Sez. 4, 9 agosto 2022, n. 30800

Nell’intervento di questo mese si prende in considerazione l’infortunio sofferto da un lavoratore e consistente nell'amputazione del braccio, che avveniva durante la lavorazione del legno attraverso un macchinario.

***

Durante i primi due gradi di giudizio, le Corti di merito affermavano la responsabilità penale del preposto, il quale aveva adibito il dipendente a mansioni differenti rispetto a quelle proprie del suo rapporto di lavoro.

Nonostante la doppia conforme di merito, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione lamentando l’erronea applicazione di plurime norme del Testo Unico sulla Sicurezza.
In particolare, negava la propria qualità di preposto,sulla base del fatto di non avere ricevuto la necessaria formazione prevista dalla legge.

La Suprema Corte respingeva tale ricostruzione, argomentando come sintetizzato di seguito.
Innanzitutto, il ricorrente aveva ricevuto formale investitura nel ruolo di preposto, in quanto gli era stata consegnata una comunicazione dalla direzione aziendale, secondo cui le sue mansioni consistevano in quelle di controllore di produzione.

I giudici della Cassazione stabiliscono poi, in merito all’assenza di adeguata formazione:

<<...Il fatto che ............ non avesse seguito il corso di formazione e aggiornamento previsto ex lege non esclude la sua responsabilità: a prescindere dalla sua investitura formale, egli di fatto svolgeva le mansioni di preposto, dirigendo il personale; pertanto, il rilievo non può essere ragione di esonero da responsabilità (cfr. Sez. 4 n. 24136 del 06/05/2016, Rv. 266854 - 01: "In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, le responsabilità del dirigente e del preposto non trovano la propria origine necessariamente nel conferimento di una delega da parte del datore di lavoro, potendo derivare, comunque, dall'investitura formale o dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garanti"...>>.

***

Quindi, non risulta necessario, al fine del riconoscimento della posizione di garanzia, avere ricevuto la prescritta formazione (anche in difetto di investitura formale), bensì è sufficiente l’esercizio, a seguito di formale attribuzione o meno, dei compiti e delle funzioni della rilevante figura prevenzionistica, in questo caso il preposto.
Conseguentemente, l’assenza di formazione non può essere utilizzata dall’imputato (sia esso preposto di diritto o di fatto), come motivo di esclusione delle proprie responsabilità in materia prevenzionistica, perlomeno per quanto riguarda la sussistenza della posizione di garanzia.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.


interesse o vantaggio - Cass. Pen., Sez. III, n. 21034, 30 maggio 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza sopra indicata, è tornata ad esaminare il concetto di “interesse o vantaggio per l’ente” in relazione al compimento di reati ambientali da parte dei soggetti apicali.

Nel caso di specie, la Cassazione ha respinto il ricorso presentato da una società avverso la sentenza del Tribunale di Rimini, che l’aveva condannata per il reato di “Scarichi di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose”, fattispecie prevista all’art. 137, commi 1 e 2, del D.lgs. 152/2006.

In particolare, la società aveva aperto uno scarico che disperdeva in un fiume reflui industriali contenenti molteplici sostanze chimiche pericolose, senza tuttavia avere richiesto e ottenuto la necessaria autorizzazione ambientale.

Secondo i giudici di merito, il fatto era stato commesso dal legale rappresentante nell’interesse della società, in quanto l’apertura e il mantenimento dello scarico aveva consentito alla stessa di smaltire i propri rifiuti nell’ambiente, in pieno contrasto con le regole previste dalla normativa vigente.

La società, inoltre, non aveva adottato un Modello di organizzazione, gestione e controllo, ai sensi del D.Lgs. 231/2001, idoneo a prevenire i reati contestati.

***

La società, impugnando la sentenza di condanna, aveva rilevato la errata applicazione dell’art. 137, D.Lgs. 152/2006 e la mancanza di motivazione circa l’interesse dell’ente rispetto alla condotta addebitata all’imputato, evidenziando come il Tribunale avesse omesso di considerare l’occasionalità della condotta rilevante (stante l’unicità dell’episodio di sversamento contestato) nonché la mancanza di vantaggio economico in capo all’ente.

 

Nonostante l’occasionalità della condotta, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso della società, ha confermato la condanna inflitta dai giudici di prime cure, sottolineando come debba considerarsi posta in essere nell’interesse o a vantaggio dell’ente anche la condotta che, come nel caso in esame, costituisca attuazione di scelte organizzative o gestionali inadeguate e finalizzate a sostenere i soli costi dalle stesse derivanti.

Detta condotta, benché non implichi un risparmio di spesa, deve ritenersi realizzata nell’interesse dell’ente in quanto espressione di una politica imprenditoriale totalmente inadeguata.

In altri termini, la responsabilità per l’ente ex art. 25-undecies D.lgs. 231/2001 è stata affermata dalla Corte sul presupposto che l’apertura e il mantenimento dello scarico oggetto di contestazione aveva consentito all’ente di recapitare i propri reflui senza predisporre i necessari accorgimenti per raccoglierli e smaltirli secondo la disciplina vigente, quindi ottenendo un risparmio di costi.

 

Nel dettaglio, i giudici di legittimità hanno rammentato che in tema di verifica in concreto dell’interesse e vantaggio derivato all’ente dalla commissione del reato la “effettiva e potenziale utilità, ancorché di natura economica, dalla commissione del reato, sono valutabili anche in termini di risparmio di costi, tanto che si deve ritenere posta nell'interesse dell'ente, e dunque forte di responsabilità amministrativa, anche quella condotta che, come nel caso in esame, attui le scelte organizzative o gestionali dell'ente da considerare inadeguate, con la conseguenza che la condotta, anche se non implica direttamente o indirettamente un risparmio di spesa, se è coerente con la politica imprenditoriale di cui tali scelte sono espressione e alla cui attuazione contribuisce, è da considerare realizzata nell'interesse dell'ente".

***

La sentenza in commento consolida quindi l’orientamento secondo cui l’interesse o il vantaggio per l’ente sono valutabili anche in termini di risparmio di costi; occorrerà semplicemente accertare che la condotta illecita sia espressione di scelte organizzative e gestionali che mirano ad evitare i costi che graverebbero sull’impresa se l’attività di quest’ultima fosse svolta nel pieno rispetto della normativa vigente


Il Datore di lavoro come utilizzatore e non creatore di sapere cautelare

La sentenza (Cass. Pen., Sez. IV, 15 luglio 2022 -ud. 13.4.2022-, n. 27583) che vi segnaliamo è di speciale interesse, per i Datori di lavoro.

 

La Corte era presieduta dal Dr. Salvatore Dovere (anche estensore della motivazione), magistrato particolarmente esperto in materia di sicurezza del lavoro; il giudice è stato relatore avanti alla Suprema Corte del processo per il disastro ferroviario di Viareggio del 29.6.2009 (sentenza 32899/2021, citata nella motivazione della decisione che oggi vi proponiamo).

***

La Corte accoglie i ricorsi e annulla la sentenza di secondo grado, che aveva confermato la condanna di CR (AD e Datore di Lavoro) e PS (Delegato alla sicurezza, ex art. 16 D.Lgs 81/08), ritenuti colpevoli della morte del dipendente AM, occorsa durante il collaudo in acqua di un mezzo anfibio, destinato alla pulizia delle acque interne.

***

Di Seguito, vediamo alcuni importanti principi, ma consigliamo una lettura lenta e meditata della sentenza, a tutti gli 'addetti ai lavori'.

***

A)Paragrafo 1.4 (pag. 7) Il datore di lavoro ed il limite della conoscibilità

E’ molto frequente, da parte del PM e del Giudice, un grave errore logico-giuridico: la condotta colposa omessa, oggetto della ritenuta responsabilità penale, è, invece, la misura cautelare (concretamente impeditiva dell’infortunio) desunta dalla a tutti agevole regola cautelare ex post, secondo un modello logico ricostruttivo e non predittivo.

Questo scrive la Suprema Corte:

‘...il datore di lavoro, anche avvalendosi della consulenza del RSPP, ha l’obbligo giuridico di analizzare ed individuare tutti i fattori di rischio concretamente presenti all’interno della azienda “secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica”…?.

Ma cosa vuol dire, quindi, questa ultima espressione della sentenza ?

Spiega la Cassazione per il datore di lavoro:

‘…In altri termini, pur essendo colui che ha…la conoscenza dell’intera organizzazione per la produzione, perché ne è l’autore ed il dominus, il singolo datore di lavoro rimane un utilizzatore e non un creatore di sapere cautelare…’.

Attenzione all’espressione: ‘utilizzatore…,non creatore’ !

Insomma: ‘…l’obbligo di valutazione dei rischi ha quale termine i rischi che al tempo erano riconoscibili…l’accertamento processuale deve necessariamente estendersi all’acquisizione di prove in merito alla stato della scienza, della tecnica e della esperienza al tempo della valutazione dei rischi…per identificare quali fossero riconoscibili nel caso concreto (e quali misure fossero individuabili come atte a fronteggiarli)…’.

Diversamente, il giudice rischia di sbagliare:

‘’…In assenza di un simile approfondimento probatorio è particolarmente elevato il rischio che il giudice elabori la regola cautelare dalla dinamica causale in concreto verificatasi. Formandosi, in tal modo, un convincimento viziato, perché fondato sul confondimento tra la regola atta ad evitare l’evento, identificabile dal tipico punto di vista causale, ovvero ex post, con quella doverosa, che va individuata ponendosi nella condizione ex ante…’.

***

B)Paragrafo 2.2 (pag. 9)

Distinzione tra Valutazione dei rischi ed elaborazione del Documento di valutazione 

Il punto in questione era l’aggiornamento del DVR, omesso dal datore di lavoro, secondo i giudici di merito.

A parere della Cassazione '…E’ manifestamente illogica l’affermazione della Corte di Appello…Un vizio motivazionale che in realtà trae origine da una erronea interpretazione della legge, la quale distingue tra valutazione dei rischi come attività di analisi, di giudizio e di disposizione e la elaborazione del documento che la rende estensibile (come è dimostrato dalla indelegabilità della prima ma non della seconda...) In altri termini, il fatto che il documento non sia stato aggiornato non significa necessariamente che la valutazione non sia stata eseguita…’.

Per completezza si precisa che l’assunto di questa sentenza è stato fortemente criticato da autorevole autore (cfr. Raffaele Guariniello, IPSOA Quotidiano (on line), 30 luglio 2022, ‘Documento di valutazione dei rischi. E’ un obbligo delegabile del datore di lavoro ?').

***

C)Paragrafo 2.3 (pag.9)

L’obbligo di valutazione dei rischi (sanzionato ex art 55, Dlgs 81/08) rappresenta una norma precautelare, un obbligo avente natura procedurale.

L’omissione della valutazione dei rischi non è quasi mai, ex sé, eziologica rispetto all’evento (lesioni/morte). 

Solo la regola cautelare individuata (in esito a tale valutazione) potrà esser rilevante nell’accertamento penale:

‘…Causa dell’evento è la mancata protezione dell’organo in movimento di un macchinario cui venga adibito un lavoratore…Non lo è, sul piano giuridico, la omissione della valutazione, che avrebbe consentito di individuare le concrete misure da adottare…non è l’omessa valutazione l’antecedente causale al quale guardare ed il giudice non può in nessun caso sottrarsi al dovere di enunciare la specifica misura che, alla stregua della scienza, della tecnica e del sapere esperenziale consolidatosi, sarebbe stata doverosa e che, adottata, avrebbe evitato il verificarsi dell’evento tipico…’.


ESIGIBILITA' DEL COMPORTAMENTO DOVUTO - Cass. Pen., Sez. IV, 20 giugno 2022, n. 22628

Questo mese si prende in esame la sentenza (Cass. Pen., Sez. IV, 20 giugno 2022, n. 22628) con cui la Suprema Corte chiarisce il criterio della esigibilità in riferimento all'osservanza degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.

FATTO

Sia in primo grado che in Appello l'imputato, nella sua qualità di Datore di Lavoro, viene ritenuto colpevole del reato di lesioni colpose gravi (art. 590 c.p.), commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, per non aver messo a disposizione idonei dispositivi di protezione dai rischi da taglio in violazione dell'art. 18, comma 1 leI.d) d.lgs 81/08.

DIRITTO

L'imputato propone ricorso per Cassazione deducendo, tra l'altro, che la Corte di Appello lo aveva ritenuto colpevole per una sorta di responsabilità oggettiva, senza tener conto nel giudizio di rimproverabilità, di una importante circostanza: aver affidato la scelta dei DPI idonei ad una società specializzata in materia di sicurezza.

Il punto fondamentale è quindi l'effettiva rimproverabilità della condotta dell'imputato, sul piano soggettivo, ovvero il profilo della c.d. esigibilità.

La colpa ha infatti un versante oggettivo: la violazione della norma cautelare, ma ha anche un versante soggettivo: la possibilità dell'agente di osservare la regola cautelare (in poche parole l'esigibilità del comportamento dovuto).

La sentenza di Appello avrebbe dovuto, quindi, argomentare anche in ordine alla scelta del consulente, valutando se l'affidamento fosse stato effettuato tenendo conto della professionalità del consulente (in termini di esperienza e di specializzazione) e dell'ampiezza dell'incarico e la specificità dei DPI da individuare,... "onde poter dedurre la conoscenza o la conoscibilità di questi ultimi da parte del Datore di Lavoro".

Solo all'esito di una simile valutazione si può, infatti, muovere un giudizio di rimproverabilità al Datore di Lavoro.

La Corte ha dunque annullato la sentenza impugnata per aver omesso il giudice di merito ogni valutazione circa l'effettività della consulenza (ovvero la professionalità del consulente, la sua esperienza e specializzazione, l'ampiezza e la specificità dell'oggetto della consulenza), in modo tale da non poter muovere un giudizio di rimproverabilità soggettiva al datore di lavoro.


Responsabilità dell'ente e colpa di organizzazione

Cassazione penale sez. IV, 15/02/2022, n.18413

IN SINTESI:

I reati colposi ascrivibili agli amministratori della società, quali datori di lavoro, per la causazione di lesioni colpose ad una dipendente, aggravate dalla violazione di norme prevenzionistiche, non sono automaticamente addebitabili all'ente.

Invero, la "mancanza del modello organizzativo" da parte dell’Ente non costituisce un elemento tipico dell'illecito amministrativo, per la cui sussistenza occorre invece fornire positiva dimostrazione della sussistenza di una "colpa di organizzazione" aziendale.

Pertanto, il PM dovrà dimostrare che la mancanza del MOG 231 è causa del reato presupposto.

***

LA PRONUNCIA

La Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 18413 del 15.2.2022, dep. 10.5.2022)  ha annullato la pronuncia della Corte di appello di Venezia (la quale aveva confermato la decisione di condanna del Tribunale di Vicenza), per aver ritenuto la società X responsabile dell’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-septies, comma 3 (lesioni colpose, commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro).

In particolare, la condanna era fondata su due considerazioni:

1. la mancata adozione di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro;

2. l’omessa nomina di un organo di vigilanza che verificasse con sistematicità e organicità la rispondenza delle macchine operatrici alle normative comunitarie in tema di sicurezza.

***

Innanzitutto, la Suprema Corte ha dato conto che nella descrizione del capo d'accusa non emergesse con chiarezza un concreto profilo di responsabilità addebitato alla società, avuto riguardo all’interesse dell'ente, rapportato alla riscontrata assenza di un "modello organizzativo", la cui efficace adozione consente all'ente di non rispondere dell'illecito, ma la cui mancanza, di per sé, non può implicare un automatico addebito di responsabilità.

Nella lucida ricostruzione giuridica, la Suprema Corte ha dato conto che la responsabilità amministrativa degli enti, prevista dal D.lgs 231/2001, presuppone "la necessità che sussista la c.d. ‘colpa di organizzazione dell'ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; (cosicché n.d.r.) il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo.”